Il tramonto dell’era “fossile”
L'ultimo report IEA fa emergere dati e trend che portano in una direzione: la transizione è già avviata, ma senza reti non c’è una vera rivoluzione.
E se fossimo entrati a pieno titolo nell’epoca dell’elettricità? Nel 2025, secondo l’ultimo rapporto dell’International Energy Agency (IEA), gli investimenti globali in energia raggiungeranno la cifra record di 3,3 trilioni di dollari, nonostante un contesto segnato da incertezze economiche e da tensioni geopolitiche. Oltre due terzi di questi investimenti – circa 2,2 trilioni di dollari – saranno destinati a tecnologie non fossili.
Nel dettaglio, il rapporto evidenzia una netta accelerazione verso soluzioni a basse emissioni: rinnovabili, nucleare, batterie, reti intelligenti, combustibili puliti, efficienza energetica ed elettrificazione degli usi finali. E dunque, per la prima volta, gli investimenti globali verso soluzioni a basse emissioni (e la conseguente elettrificazione dei consumi) superano stabilmente quelli nei combustibili fossili. È un sorpasso che non nasce solo da motivazioni climatiche, ma anche da logiche di sicurezza energetica e da politiche industriali mirate.
Fra i combustibili fossili, si assesta il trend che vede crescere l’importanza del gas rispetto al petrolio. Il metano viene ancora visto come un’energia di transizione, perché è ha un impatto carbonico minore rispetto a carbone e petrolio.
Inoltre, non tutto ciò che rientra nel “non fossile” è verde in senso stretto. Il fotovoltaico è oggi il segmento leader con circa 450 miliardi di dollari, ma si osserva anche una ripresa degli investimenti nel nucleare convenzionale, soprattutto nei Paesi che puntano a garantirsi una base stabile e programmabile, almeno per i prossimi vent’anni. La fusione, pur ancora lontana dall’industrializzazione, non è più considerata un sogno irrealizzabile.
Il fotovoltaico avanza ovunque, dai grandi impianti pubblici alle installazioni sui tetti. L’eolico, invece, sta calando in proporzione: molte aree con risorse favorevoli sono già state sfruttate, e i nuovi progetti risultano meno competitivi.
In altre parole, il tramonto dell’era “fossile” e l’inizio di quella “verde” non sono uniformi, ed è una rivoluzione che rischia di lasciare qualcuno indietro. L’impennata di investimenti puliti spesso si scontra con le realtà tecniche, geopolitiche e infrastrutturali di un mondo ancora troppo sbilanciato. La via che ci sta portando al tramonto dell’era fossile è piena di incertezze e paradossi.
Reti inadeguate
Nonostante differenze da paese a paese, il trend è chiaro: Europa, Brasile, India, Cina, Giappone, Corea e Stati Uniti (unendo gli investimenti in rete e rinnovabili) stanno investendo in modo massiccio nelle fonti rinnovabili. Come detto, al centro di questa transizione c’è soprattutto il solare, con il fotovoltaico che si diffonde sempre più anche in forma distribuita, dai grandi impianti ai tetti delle case.
C’è però un problema strutturale che rischia di rallentare questa corsa: gli investimenti nelle reti elettriche non crescono con la stessa velocità. Anche se rappresentano la seconda voce di spesa a livello globale, restano insufficienti rispetto alla rapida espansione delle rinnovabili.
Il motivo è tecnico ma fondamentale. L’energia solare produce corrente continua, mentre la rete elettrica tradizionale funziona in corrente alternata, a una frequenza di 50 Hz in Europa (e 60 negli Stati Uniti). Per immettere efficacemente l’energia solare nella rete servono sistemi avanzati di conversione e stabilizzazione (inverter). In mancanza di un adeguato carico di base (baseload) della rete con cui sincronizzare la fase l’energia prodotta, il rischio è che questa non possa essere sfruttata, perché la rete non è in grado di assorbirla senza rischi di instabilità o blackout.
In altre parole: potremmo ritrovarci con tanti pannelli solari e poca capacità di utilizzarne l’energia, perché la rete non è pronta. E sarebbe come voler far passare il traffico di un’autostrada dentro una stradina di campagna.
Questo problema riguarda soprattutto i Paesi industrializzati, dove le reti esistenti – concepite in un’epoca di generazione concentrata e non distribuita, come tipico per le fonti rinnovabili – richiedono aggiornamenti profondi. I Paesi in via di sviluppo, al contrario, potrebbero costruire reti più moderne fin dall’inizio. Ma spesso mancano delle risorse economiche necessarie per farlo.
Differenze nel mondo
Uno degli aspetti più sorprendenti emersi dal report IEA riguarda la Cina. Spesso percepita come uno dei principali freni alla transizione ecologica, in realtà Pechino è oggi il più grande investitore mondiale in energia pulita, con una spesa prevista di 627 miliardi di dollari nel 2025. Un dato che supera di gran lunga i 400 miliardi degli Stati Uniti e i 386 miliardi dell’Unione europea.
Tuttavia, la Cina resta anche il più grande investitore mondiale in fonti fossili, con 257 miliardi di dollari previsti in petrolio, gas e carbone (contro i 187 degli Stati Uniti). La strategia cinese segue dunque un doppio binario: da un lato guida il mondo nel solare (ove domina la produzione di pannelli fotovoltaici), nelle batterie e nei veicoli elettrici; dall’altro continua a finanziare massicciamente il carbone per garantire la sicurezza energetica interna. Un paradosso che ha ricadute sull’intero sistema globale.
L’India, pur partendo da livelli inferiori, sta seguendo una traiettoria più univoca: ha fissato l’obiettivo di coprire oltre il 50% del proprio fabbisogno energetico con fonti rinnovabili entro il 2030. Il fotovoltaico è in forte espansione, ma rimane un ostacolo strutturale: la rete elettrica indiana non è ancora in grado di reggere un’elettrificazione su larga scala. Servono investimenti consistenti per evitare colli di bottiglia che rischiano di rallentare la transizione.
Ancora diversa è la situazione dell’Africa, in particolare dell’Africa sub-sahariana. Nonostante rappresenti il 20% della popolazione mondiale, il continente raccoglie solo il 2% degli investimenti globali in energia pulita.
Il boom demografico in corso implica una crescente domanda di energia, ma mancano capitali, infrastrutture e competenze tecniche. Il rischio è quello di una transizione mancata: in assenza di finanziamenti esterni e tecnologia, molti Paesi africani potrebbero restare dipendenti da fonti fossili - a volte basandosi sulla produzione nazionali di idrocarburi come accade in Nigeria, Angola, Congo, Gabon etc - con un impatto ambientale significativo.
C’è infine un problema qualitativo. L’espansione delle reti elettriche in Africa, spesso realizzata “al minimo necessario” per motivi economici, potrebbe impedire uno sviluppo decentralizzato dell’energia – come impianti solari locali o micro-reti – proprio nei contesti dove sarebbero più utili. La transizione fatta in questo modo, insomma, rischia di accentuare le disuguaglianze anziché ridurle.
Gli usi finali
C’è poi un ultimo aspetto da sottolineare, anche se nel report è citato in maniera più marginale: la transizione non riguarda solo come produciamo energia, ma anche come la consumiamo. E qui emerge un’ulteriore criticità: l’elettrificazione degli usi finali – cioè delle nostre case, delle industrie, dei trasporti – è ancora troppo lenta e frammentaria.
Prendiamo il caso delle abitazioni. Anche in molte case nuove, il mix resta ibrido: si installano pannelli fotovoltaici sul tetto, ma il riscaldamento è ancora a gas e in cucina si usano fornelli tradizionali. Le pompe di calore stanno crescendo, ma faticano a imporsi. Il risultato è che, senza interventi strutturali e incentivi mirati, continuiamo ad avere abitazioni che producono energia pulita ma non la usano appieno. Il problema è che una reale conversione all’elettrico, oltre ad avere possibili problemi di efficienza, avrebbe costi altissimi difficilmente sostenibili dalle famiglie senza sussidi significativi.
Lo stesso vale per l’industria. Gran parte degli impianti produttivi energivori funziona ancora con combustibili fossili e riconvertirli richiede investimenti massicci. L’elettrificazione richiede non solo nuove tecnologie, ma anche formazione, adattamento delle reti, creazione di nuove filiere. Eppure, come rileva il report IEA, gli investimenti in elettrificazione degli usi finali restano oggi inferiori rispetto a quelli nella produzione.
Il rischio è evidente: generare sempre più energia rinnovabile, senza avere gli strumenti per utilizzarla in modo coerente. Una transizione a metà, insomma. E una sfida che – ancora una volta – riguarda non solo l’innovazione tecnologica, ma anche la visione politica e la capacità di coordinamento tra settori diversi.
A questo contenuto ha collaborato Paolo Dutto, Partner BIP.
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La nostra parola per questo è baseload
Quantità minima e continua di energia che una rete elettrica deve fornire per garantirne la stabilità e il funzionamento costante. È ciò che tiene in equilibrio domanda e offerta, evitando sbalzi e interruzioni.
Fondamentale per integrare fonti intermittenti come solare ed eolico, il carico di base viene tradizionalmente garantito da centrali termoelettriche o nucleari, capaci di erogare energia in modo prevedibile e controllato. Nella transizione energetica, il tema del baseload diventa cruciale per accompagnare la crescita delle rinnovabili senza compromettere la sicurezza del sistema.
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